Suggeriamo oggi la lettura di questo interessante saggio della sociolinguista Vera Gheno sul mondo della comunicazione linguistica e sulle sue insidie, cui tutti siamo esposti in qualità di soggetti sia attivi che passivi.
Se comunicare è necessario ed inevitabile, non sempre infatti siamo in grado di farlo correttamente e soprattutto in modo efficace e rispettoso. Alla stessa maniera, non sempre siamo in grado di decifrare le sottili manipolazioni che si celano dietro le comunicazioni di cui siamo fruitori.
La rapidità, la proliferazione e la pluralità di mezzi che veicolano gli atti comunicativi nel mondo iperconnesso in cui siamo costantemente immersi rende allora quanto mai utile l’analisi che Gheno ci propone con uno stile snello e brillante, mai supponente, ricco di esempi tratti dalla propria personale esperienza privata e pubblica ma anche di citazioni autorevoli che ne puntellano solidamente l’argomentazione.
Tre capitoli, tre ambiti di analisi, tre parole che si legano tra loro: dubbio, riflessione, silenzio che insieme formano un vero e proprio metodo – il metodo DRS – proposto come un habitus mentale capace di fornirci una bussola per orientarci nel mondo della complessità delle relazioni comunicative.
Il dubbio è l’atteggiamento fecondo di chi conosce i limiti della propria conoscenza e con questa autoconsapevolezza ne rende possibile il superamento, senza cadere nell’incertezza che paralizza.
Esso ci evita di cadere nel misoneismo e nella xenofobia e di assumere posizioni rigide che, in realtà, sono un sintomo di debolezza. In ambito linguistico ciò significa non aver paura dell’innovazione che modifica la norma, condannandola tout-court; ma anche di difendersi da comunicazioni solo apparentemente neutre, sottoponendo le parole (spesso volutamente sovrabbondanti, furbescamente estrapolate dal contesto o caricate di emotività con sapiente arte retorica) al vaglio di una sana diffidenza.
Il dubbio ci difende anche da quello che Gheno chiama, con icastica ironia, “l’odio dei giusti” e che è tristemente noto, nel mondo dei social media, come l’esplosione di violenza verbale degli haters e dalla miope difesa del politically correct che a volte assume connotati umoristici, come nel caso di chi protesta sdegnato per l’inserimento di parole ritenute sessiste nei dizionari lessografici.
Il secondo ambito di analisi riguarda la riflessione. Essa è necessaria innanzitutto per comunicare con consapevolezza – dei propri limiti e delle proprie potenzialità – e responsabilità riguardo alle possibili conseguenze. Il consiglio è di scrivere “come se ti dovesse leggere la persona più maldisposta verso di te” , con attenzione massima alla sensibilità dell’ interlocutore.
Riflettere per chiarire a se stessi gli intenti della comunicazione e analizzare il contesto e le caratteristiche dell’interlocutore/destinatario è presupposto per scegliere le strategie più appropriate (registro linguistico, durata o spazio, mezzo) a raggiungere lo scopo, che dovrebbe sempre essere “generativo” e non “performativo”, volto cioè a farsi comprendere e non a compiacersi della propria abilità.
Ecco allora che “l’arte di usare le parole” richiede anche uno sforzo conoscitivo che accresca la nostra competenza attraverso scavi etimologici e una paziente ricerca di parole non abusate o pass-partout (i plastismi o parole di plastica, per dirla con Gheno), con duttilità ed equilibrio rispetto ai forestierismi – che oggi sono soprattutto gli anglismi veicolati dalla diffusione dell’inglese come lingua di comunicazione internazionale – e consapevolezza delle variazioni diacroniche della lingua, che non può arroccarsi in purismo eccessivo e ingiustificato incapace di rispecchiare una realtà in cambiamento. Ciò implica anche la riflessione sul problema, attualissimo, dell’ inclusività linguistica per trovare soluzioni praticabili e rispondenti alla moderna sensibilità su questo delicatissimo tema.
Infine, il silenzio. Che non è affatto assenza di comunicazione, vuoto, ma veicola un suo preciso significato. A volte sgradevole, come nel caso di chi non ci risponde intenzionalmente, a volte riposante e perciò ricercato, altre ancora espressione di un rituale codificato da non violare. E atto finale di chi, avendo utilizzato tutti gli strumenti di cui disponeva per chiarire all’interlocutore gli eventuali punti oscuri senza sottrarsi alla fatica di spiegare e rispiegare, preferisce non avere per forza l’ultima parola e sceglie appunto di tacere.
Gheno tocca, come si vede da questa breve sintesi, molti aspetti del problema dell’interazione linguistica insistendo sempre sulla necessità di un controllo rigorosissimo sulle nostre e sulle altrui parole: una necessità direi imperativa nel dilagare attualmente assordante di una comunicazione che fluisce senza limiti e nella quale tutti rischiamo di perdere, con la libertà, anche la nostra innocenza. Perché le parole, ce lo ricorda papa Bergoglio, “possono essere baci, carezze, farmaci oppure coltelli, spade o proiettili” (P.Rodari, Il messaggio inaudito del papa: “Le parole sono baci o coltelli, il silenzio è la lingua di Dio”, in “La Repubblica, 9 gennaio 20221; la citazione, della stessa Gheno, si legge in nota a p. 129).
Saperle usare, dunque, è per Gheno l’ arte che “ci rende compiutamente umani, l’essenza del nostro essere: è umanità in purezza (…)”. Come darle torto?