L’ANGOLO DELLA POESIA: La poesia di Piero Antonaci

Tra i corridoi e le aule del nostro Liceo si aggira un poeta riservato e schivo: Piero Antonaci, docente di storia e filosofia, è l’autore di quattro raccolte poetiche che attraversano un trentennio, dall’ esordio del 1990 ad oggi.

E’una poesia, la sua, che sin dalla prima silloge, Voci per quattro mani (1990) si connota come attraversamento, percorso, “strada” con e nelle parole, alla ricerca di un senso nelle “(circo)stanze” del nostro fragile essere nel mondo.

Questi primi versi si accampano scarni e senza titolo su una pagina spoglia come un continuum di frammenti in cui, quasi in filigrana, emergono paesaggi – quelli del meridione a cui appartengono le sue origini – e un indefinito “tu” allocutivo, muto nella prima parte, specchio di poesie a colloquio nella seconda, voce che si spegne nell’assenza nella terza e che infine si infrange “vicino ab limite” nell’ultima.

Tra il Proemio che apre la raccolta e l’Epilogo conclusivo, con una lingua che tende alla condensazione del significato, si snoda, verso dopo verso, “la fede/ di trovare poi la parola e la mano che un amico/ ha lasciato di nascosto/ nelle frasi che poi si scriveranno / per credere (…); esse sono “voci / sulle due rive opposte delle mani (…) spiccate dallo stampo della mano/ sui rami/ dalla parte dove la riva ha mostrato/ scorci ancora non recisi”dalla sagoma del treno che suggella un infinito andare, “senza più la ragione e la fede/ in una differenza / fra strada e poesia.”

Nella seconda raccolta “Fuori luogo fuori tempo” (1991-2003) la ricerca poetica dell’autore acquisisce un carattere più inquieto e sperimentale, in una sorta di girovagare ondivago in cui il frammento si aggrega quasi spontaneamente in grumi più compatti attorno a un tema o a una “semplice comunione di intenti”, mentre la parola si fa più diretta e colloquiale.

Si tratta di poesie prive di una datazione precisa, versi “rimasti aperti a modifiche e rifacimenti senza limiti di tempo, come pagine di un unico racconto, pagine che non potevano chiudersi se non si chiudeva l’ultima”, come chiarisce l’autore nella prefazione. Tra versi che nascono come didascalie a immagini pittoriche (quelle dell’amico pittore Gigi Specchia) o a fotografie (della Valchiavenna), altri “indecisi” se rimanere la prosa da cui provengono o farsi poesia, altri ancora scaturiti da letture di testi in cui domina la distruzione della guerra, accurata e diligente negli asettici resoconti degli storici, si avverte la perplessità di un viaggiatore senza meta, “fuori luogo” appunto, il cui distratto ma preciso sguardo scava, annota, interroga apparenze e contorni di una realtà che sfugge alla presa.

Nella sezione conclusiva, Brevità dei bambini, lo sfondo delle corse, dei sorrisi, dei giochi dei bambini le restituisce in parte concretezza e senso: “Sono, i bambini, l’unica cosa che ha senso/ con le loro corse/ che sfuggono all’eterno ritorno; “di quali cose possiamo chiedere il senso,/ solo quelle che facciamo per i bambini”; ma si tratta di una salvezza provvisoria: “Arriverà il tempo delle altalene vuote/ arriverà all’improvviso/ e io e te ci chiederemo perché/ proprio qui in questo giardino/ siamo venuti,/ perché proprio qui/ abbiamo perso il senno”.

Con “Le ragioni” (2003-2008) la tendenza a registrare eventi, incontri, sguardi che si posano fugaci su cose, case, persone diventa più spiccatamente diaristica, spesso sollecitata da una presenza ingombrante della televisione che dilata gli spazi domestici nell’orizzonte senza confini di un mondo devastato dalla violenza (le bombe a Madrid, la guerra in Palestina, le strade di Napoli colme di insidie, i bambini che muoiono in mare) o dominato da un caso cieco che assume a volte i tratti ingannevoli di un destino cui non è possibile sfuggire: “I passi degli dei non fanno rumore, (…) si avvicinano di nascosto/ alle spalle colpiscono/ senza spiegazioni./ Avevamo un canarino/ tanto tempo fa,/ poi è morto/ così/ senza motivo”.

Emerge e si rafforza allora, verso dopo verso, il bisogno di capire, di cercare “le ragioni” e di mettere ordine fino alla precisione della “punteggiatura” (“Da vent’anni che dormo/ faccio sempre lo stesso sogno:/ io che metto punteggiatura dappertutto,/ sulle strade, sui muri, in cielo,/ e che così facendo/ faccio contento il pensiero”) nella consapevolezza che nel rapporto tra l’uomo e la realtà, mediata dalle parole, è tuttavia inevitabile e anzi necessario uno scarto, uno iato incolmabile che la poesia non può che accettare ed abitare.

Del resto cercare ragioni vuol dire “porre domande”e dunque“riflettere”e questo riflettere “come specchi le cose”, essere “lo specchio dentro cui si riflette la natura” è la sostanza della nostra “umanità” ; ma se “le cose, l’oggettività, continuano ad inseguirci (…) le parole non devono cercare a tutti i costi la coincidenza con le cose”: esse “devono rimanere parole e le cose devono rimanere cose. Le parole (…) devono mantenere il loro statuto simbolico, cioè il loro potere riflettente e interrogante”, sempre soggetto allo scacco e alla frustrazione: “Con la poesia mettiamo in salvo le parole./ Per il resto non si può fare nulla”.

Anche la radici, cui di tanto in tanto si ricercano luoghi odori colori (come nella sezione Fuga salentina) diventano inconsistenti e aderiscono solo al ricordo che li “riflette”: “Questa terra non è terra ma foglio di giornale/ contratto feudale grande e sporco/ come uno ius primae noctis./ Questa terra non è terra/ ma carta catastale/ stesa su un bancone di legno unto di fumo/ di sigarette./ A guardarla bene questa terra non è neppure rossa” ; “L’ulivo non è un albero ma un uomo/ che mentre tornava a casa dopo la potatura/ si è voltato indietro ed è rimasto scolpito nel tronco.”

Antonaci approda alla piena maturità espressiva nell’ultima raccolta, “Anni in versi” (2006-2019), in cui la poesia si pone come anello di congiunzione tra il poeta e il lettore, l’universale e il particolare, specchio dell’esperienza e della verità di ciascuno e di tutti.

Nella dichiarata volontà di perseguire una poesia “ingenua” che il rigore formale preserva dal rischio della semplificazione e dell’ “inconsistenza”, i versi scorrono sul filo di un tempo vissuto a cui oppongono resistenza, nel tentativo di trasformarlo in storia e racconto cui la poesia dà continuità, radici e proiezione nel futuro. Non a caso quattro temi sono ricorrenti e circolari, come gli anelli di una spirale: la storia, la verità, la poesia e la madre, mentre il mondo e la vita si presentano alla riflessione come teatro di un male senza un perché (“Se scavi il male/ alla sua base, vedi,/ non ha radici”), gesto incompiuto e negazione di sé (“La vita che cos’è:/ un bacio non dato,/ un abbraccio mancato,/ una stretta di mano rimasta nella tasca (…)” in un estenuante dualismo o meglio compenetrazione degli opposti (ordine/disordine, distruzione/creazione, Paradiso /Inferno) fino a diventare una pura metafora e gioco di parole che si nutre di contraddizioni:

E se il mondo fosse solo una metafora/ e la legge fisica un giro di parole,/ il male un malinteso bene, l’odio un malinteso amore, / il bene una buona interpretazione del vero, /l’amore il vero stesso. / E ciò che appare non fosse/ altro che un verbo/ bene o male interpretato/ che in tutti i modi cerca di dire/ ciò che da sempre dice a sé stesso:/ che l’opera dell’universo/ è solo un modo di dire, né più né meno del vero,/ un gioco di parole, una metafora/ che non vuole essere presa troppo sul serio.”

La poesia vuole essere allora un atto di libertà che smaschera nel nome la sostanza delle cose nel loro nucleo di misteriosa verità (“Viviamo in un mistero/ questo è il vero), con un linguaggio all’apparenza trasparente, in cui le parole sono però stratificate e amplificate da continue assonanze, richiami fonici ed enjambements che incidono con forza il flusso del pensiero e la sua incessante analisi:

Tutto è segno, anche una pietra è traccia,/ una casa, una scarpa, un secchio,/ ogni cosa è lasciata come si lasciava/ nei racconti la tacca sul tronco/ per ritrovare la via del ritorno./ La pietra contiene il suo silenzio,/ la casa il suo abitare,/ la porta il suo entrare,/ la finestra il tuo guardare.”

Se Dio esiste (ma anche se non esiste), allora l’universo è/ una nevicata di mondi,/ la Via Lattea e le altre distese/ di stelle sono fiocchi di neve,/ la neve come questa che/ cade in sogno nel mio lontano/ paese, immagine dell’universo,/ e io che dietro i vetri del tempo/ guardo nevicare/ sono un dio inoperoso/ che può solo guardare/ nel silenzio pensoso/ di una finestra.”

Ringraziamo il poeta e professore Piero Antonaci per aver fatto alla biblioteca della scuola il dono di questi suoi intensi, autentici e convincenti versi nei quali emerge, con lo stesso schivo riserbo, la sua profonda e pensosa umanità e la sua urgenza di espressione e di dialogo.

R.B.