L’ANGOLO DELLA POESIA: Wistawa Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-2009)

Wistawa Szymborska, premio Nobel per la letteratura nel 1996  “per la poesia che con ironica precisione permette al contesto storico e biologico di venire alla luce in frammenti di realtà umana” è voce poetica autorevole e suggestiva nel panorama letterario contemporaneo. Proviamo a conoscerla un po’…

L’acrobata

Da trapezio a
a trapezio, nel silenzio dopo
dopo un rullo di tamburo di colpo muto, attraverso
attraverso l’aria stupefatta, più veloce del
del peso del suo corpo che di nuovo
di nuovo non ha fatto in tempo a cadere.

Solo. O anche meno che solo,
meno, perché imperfetto, perché manca di
manca di ali, gli mancano molto,
una mancanza che lo costringe
a voli imbarazzati su una attenzione
senza piume ormai soltanto nuda.

Con faticosa leggerezza,
con paziente agilità,
con calcolata ispirazione. Vedi
come si acquatta per il volo? Sai
come congiura dalla testa ai piedi
contro quello che è? Lo sai, lo vedi

con quanta astuzia passa attraverso la sua vecchia forma e
per agguantare il mondo dondolante
protende le braccia di nuovo generate?

Belle più di ogni cosa proprio in questo
proprio in questo momento, del resto già passato.

Nata dalla lettura di un’altra poesia in cui, “per un refuso, una congiunzione era stata stampata due volte, una volta alla fine di un verso, la seconda all’inizio di quello seguente” e dall’osservazione che “quella ripetizione produceva un effetto simile a un dondolio” – come chiarisce l’autrice stessa – questa poesia può leggersi come una metafora della sua arte.

Si muove veloce la scrittura della poetessa, “con faticosa leggerezza, / con paziente agilità, / con calcolata ispirazione”. Supera la forza di gravità e supplisce alla sua “mancanza di ali” per esplorare l’enigma del cosmo (“Il cielo mi avvolge ermeticamente / e mi solleva dal basso” (Il cielo, p. 493) e poi planare tra gli oggetti del nostro vivere e sentire quotidiano, spesso enumerati con puntigliosa quanto disordinata precisione (“Non so altrove, / ma qui sulla Terra c’è abbondanza di tutto. / Qui si producono sedie e afflizioni, / forbicine, violini, tenerezza, transistor, / dighe, scherzi, tazzine (…) dipinti, / cinescopi, ravioli, fazzolettini per il pianto” – Qui, p. 683).

Attraversa  natura  – luoghi, mari e cieli popolati da variegate presenze animali – e  storia – il presente, il passato, il tempo senza tempo del mito – accompagnata, sempre, da un’atteggiamento di “stupore” e “incanto” (vere e proprie parole-chiave) e, insieme, di dubbio e incertezza di fronte al mistero, alla  singolarità e all’eccezionalità della vita: proprio come un’acrobata che oscilla tra gli appigli dei trapezi e la vertigine del vuoto:

Sei bella – dico alla vita – / è impensabile più rigoglio, / più rane e più usignoli, / più formiche e più germogli” (…) “Le taglio la strada da sinistra, / le taglio la strada da destra / e mi innalzo nell’ incanto, / e cado per lo stupore.” (Allegro ma non troppo, p. 315);

 “Perché mai a tal punto singolare? / Questa e non quella? E qui che ci sto a fare? / Di martedì? In una casa e non nel nido? / Pelle e non squame? Non foglia, ma viso? (…) E sulla terra? Con una stella accanto? / Dopo tante ere di non presenza? / Per tutti i tempi e tutti gli ioni? / Per i vibrioni e le costellazioni?” (Stupore, p. 307).

Lo stupore genera domande che si susseguono spesso incessanti sulla pagina, con accanimento, ma non trovano quasi mai risposta;  se la trovano, è una risposta disarmante che sottolinea la esile precarietà di ogni essere e dell’essere umano in special modo, con i suoi limiti (di percezione, di comprensione, di conoscenza) e il suo doloroso privilegio di soggetto interrogante che lo statuto di poeta amplifica a dismisura, nel gioco semiserio di slittamenti dei significanti e dei significati:

Tanto mondo a un tratto da tutto il mondo: / morene, murene e marosi e mimose, / e il fuoco e il fuco e il falco e il frutto – / come e dove potrò mettere il tutto? (…) Non è troppo per me il sole, l’aurora? / Che cosa può farne l’umana creatura? / Sono qui un istante, un solo minuto: / non saprò del dopo, non l’avrò vissuto. / Come distinguere il tutto dal vuoto? / Dirò addio alle viole nel viaggio affrettato. / Pur la più piccola – è una spesa folle: / fatica di stelo, e il petalo, e il pistillo, / un volta, a caso, in questa immensità, / sprezzante e precisa, fiera fragilità.” (Compleanno, p. 309).

Il caso è la sola costante, la sola – contraddittoria e ossimorica – legge della vita: Szymborska ne intuisce l’espressione di una incomprensibile “necessità” il cui senso ci resta precluso nonostante i tentativi di carpirne una qualche verità e di arginarne gli imprevedibili effetti :

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità. / Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.  (…) / Chiedo scusa alle grandi domande per le piccole risposte. (…) / Sopporta, mistero dell’esistenza, se tiro via fili dal tuo strascico.” (Sotto una piccola stella, p. 337);

“Leggiamo le lettere dei morti come dei impotenti, / ma dei, comunque, perché conosciamo il seguito. (…) / Poveri morti, morti accecati, ingannati, fallibili, goffamente previdenti. (…) / Ogni loro previsione è andata in modo totalmente diverso, / o un po’ diverso, ossia totalmente diverso.” ( Le lettere dei morti, p. 281).

Stupore e incanto resistono tuttavia all’ incertezza del reale, suscitati soprattutto dallo spettacolo della natura, animata e non; quando invece lo sguardo si sofferma sul mondo umano, la riflessione si fa più tagliente e impietosa, sottolineandone le  ataviche tare, i difetti costitutivi.  Solo tra gli uomini si marcano le frontiere con artificiose barriere (“Solo ciò che è umano può essere davvero straniero. / Il resto è bosco misto, lavorìo di talpa e di vento” Salmo, p. 347); la storia umana è una parata militare che sconvolge l’armonia degli elementi vitali con i suoi martellanti ritmi di guerra (Terra – terra, / terra – aria – terra, / aria – acqua – terra – terra – acqua (…) – Parata militare, p. 363);  essa “arrotonda gli scheletri allo zero” nel computo dei morti (Campo di fame presso Jaslo , p.133) e spinge le armi dei popoli dominanti fino agli orli estremi del mondo con i pretesti dell’ imperialismo di sempre, quello degli antichi Romani la cui voce non cessa di riecheggiare (“Mi sento minacciato da ogni orizzonte. / Così formulerei la cosa, o Ostio Melio. / E io, Ostio Melio, ti rispondo così, o Appio Papio: / Avanti! Da qualche parte il mondo / deve pur finire.” – Voci, p. 279).

Eppure l’uomo continua ad attribuire una smisurata e del tutto infondata importanza a se stesso e alla propria specie e ad incaponirsi  nell’eterno, risibile vizio della superbia antropocentrica:

Ha appena distinto il sonno dalla veglia. / ha appena intuito di essere sé, ha appena intagliato con mano nata da pinna / un acciarino e un missile, / facile da affogare in un cucchiaio d’oceano, / non tanto ridicolo da far ridere il vuoto, / vede solo con gli occhi, / sente solo con le orecchie, / sua lingua ottimale è il condizionale, / con la ragione biasima la ragione: / in breve: è quasi una nullità, / ma ha la testa piena di libertà, onniscienza, essere / al di là d’una carne stolta, / guardatelo un po’! (…) Uno spasso, comunque. / Un poverino qualunque. / Un vero uomo.” (Uno spasso, p. 261).

 Szymborska  vi contrappone spesso una straniante e perciò illuminante prospettiva in-umana: gli animali hanno percezioni che è lecito definire sentimenti, come quelli del cane di Hitler ucciso impietosamente alla caduta del fuhrer (p. 655)  o del gatto rimasto solo nell’appartamento per la morte del padrone (p. 523). La loro esistenza è tanto più autentica e libera in quanto priva di autocoscienza e perciò incolpevole anche nelle sue manifestazioni più feroci:

La poiana non ha nulla da rimproverarsi. / Gli scrupoli sono estranei alla pantera nera. / I piranha non dubitano della bontà delle proprie azioni. / Il serpente a sonagli si accetta senza riserve. / Uno sciacallo autocritico non esiste. (…) / Non c’è nulla di più animale / della coscienza pulita / sul terzo pianeta del Sole.” (Lode della cattiva considerazione di sé, p. 395);  “Nel mese di maggio, sotto un bel melo / che scoppia di fiori come di risate, / che è incosciente del bene e del male, (…) che non è curioso di sapere quale anno, paese, / quale pianeta e verso dove rotoli, / che è indifferente, qualunque cosa accada, / tremante di pazienza con ogni fogliolina, (…) restare ancora, non tornare a casa. / A casa vuole tornare solo il prigioniero. (Il melo, p. 393).

La vita dell’ uomo invece è gravata dal peso del gesto compiuto che avviene e si polverizza in un istante, che è nello stesso tempo eterno  e perduto per sempre, su un palcoscenico in cui si può solo improvvisare e che non consente repliche: “Una vita all’ istante. Spettacolo senza prove. (…) Parole e impulsi non revocabili, / stelle non calcolate, / il carattere come un cappotto abbottonato in corsa – / ecco gli esiti penosi di tale fulmineità. (…) / E qualunque cosa io faccia, / si muterà per sempre in ciò che ho fatto.” (Una vita all’istante, pp. 397-398); “Nulla due volte accade / né accadrà. Per tal ragione / si nasce senza esperienza, / si muore senza assuefazione.” (Nulla due volte, p. 459).

E’ un fardello ingombrante, quello della coscienza che l’evoluzione ha imposto, attraverso i mutamenti delle ere geologiche, a questo essere che resta esile e imperfetto e che tuttavia, in modo del tutto incoerente, si pensa come il più sofisticato degli esiti possibili e dunque non suscettibile di estinzione, a differenza di altre specie quale quella dei dinosauri:

 “Diletti Fratelli,/ ecco un esempio di proporzioni sbagliate: / di fronte a noi si erge uno scheletro di dinosauro – (…) vogliate notare questa ridicola testolina – / Signore, Signori, / una testolina così nulla poteva prevedere, / e per questo è la testolina di un rettile estinto – (…) / Illustri Ospiti, / in questo senso noi siamo assai più in forma, / la vita è bella e la terra ci appartiene – / Esimi Delegati, / il cielo stellato sopra la canna pensante, / la legge morale dentro di lei – / Altissimo Consiglio, / che mani abili, / che labbra eloquenti, / quanta testa sulle spalle – / Suprema Corte, / che responsabilità al posto di una coda – (Scheletro di dinosauro, pp.297-298).

Nell’intreccio di voci che teatralizza il testo – come spesso in Szymborska – l’accento cade qui sull’appello accorato e insieme ironico alla Suprema Corte, quasi una richiesta  di attenuanti nel processo della storia che prima o poi ci chiederà conto delle nostre azioni e al quale arriveremo inesorabilmente impreparati, perché dal tempo dei nostri antenati nulla abbiamo imparato di più se non che “quando il male trionfa, il bene si cela; / quando il bene si mostra, il male si acquatta. / Nessuno dei due si lascia vincere / o allontanare a una distanza definitiva. / Ecco il perché d’una gioia sempre tinta di terrore, / di una disperazione mai disgiunta da tacita speranza. / La vita, per quanto lunga, sarà sempre breve. / Troppo breve per aggiungere qualcosa.” (La vita breve dei nostri antenati, pp. 442-443).  

Nell’incertezza metafisica generale, la sorte dell’ oltrevita si traduce in una sequenza di “se” dubbiosi che investe ogni ipotesi e la scardina (Calcolo metafisico, p.519), ma lascia una certezza: la vita continuerà anche dopo e senza di noi, nei suoi ritmi di sempre e del tutto indifferente ai nostri goffi tentativi di prevederne il corso (Il giorno dopo – senza di noi, p.635) e di porre un riparo alla sua volubilità.

E tuttavia, in un mondo ove “tutto si chiarisce” e “ci si può fondare su prove”, e dove “se si cerca, è ciò che è già lì accanto. / Se si chiede, è ciò per cui c’è una risposta” – che peraltro non esiste, e per fortuna per chi scrive  – (Utopia, p.405) a che servirebbe la poesia e di cosa si nutrirebbe? (L’orribile sogno del poeta, p. 663). Non mancherebbe solo un mestiere al poeta, ma la possibilità stessa di vivere con pienezza, che Szymborska identifica con la capacità di stupirsi di fronte al divenire del reale, apparentemente immutabile ma diverso da se stesso minuto dopo minuto, istante dopo istante; ciò che il “savoir-vivre cosmico” esige da tutti e che forse solo il poeta conosce fino in fondo: “una partecipazione stupita a questo gioco / con regole ignote”.  Nel labirinto in cui tutti siamo immersi, possono così coesistere “buio e incertezza / ma insieme chiarore, incanto / dove c’è gioia, benché il dolore / sia pressoché lì accanto” (Labirinto, p. 667).

Se è interminabile l’ elenco delle domande, perché a domande spesso rispondono solo altre domande, se per questo all’incanto si affianca la disperazione (“Miei segni particolari: / incanto e disperazione” – Il cielo, pp. 493-494) la poesia offre a Szymborska un luogo/tempo assoluto  che obbedisce alle sue sole leggi e dove ogni limite si annulla. L’acrobata può restare sospeso in volo “per agguantare il mondo dondolante” anche se il momento è già passato in un momento perché  sulla pagina “un batter d’occhio durerà quanto dico io, / si lascerà dividere in piccole eternità / piene di pallottole fermate in volo” (…) La gioia di scrivere. / Il potere di perpetuare. / La vendetta d’una mano mortale” (La gioia di scrivere, pp. 185-186).

Ma non c’è compiaciuta autocelebrazione in questa gioia, né l’anacronistica idea di un’eterna e superiore conoscenza della parola poetica che illumina e sottrae l’ uomo e il mondo all’ erosione del tempo. E’ impossibile afferrare la totalità; la maggior parte se ne va “nel non visto, / nel non pensato, nel non rimpianto./  Ma questo neanche Dante potrebbe impedirlo. / E figuriamoci quando non lo si è (…) La vita dura qualche segno d’argilla sulla sabbia”.   E l’ oraziano “non omnis moriar” è solo un desiderio sofferto, “un cruccio” circondato dall’ abisso (Grande numero, p. 341), “tre piccole parole soltanto, tre piume d’un volo (Autotomia”, p.319). Da trapezio a trapezio, sempre in bilico sul nulla.

R.B.

Wistawa Szymborska, La gioia di scrivere. Tutte le poesie (1945-20099), Milano, Adelphi, 2009.

Le pagine delle citazioni si riferiscono all’edizione qui indicata.